“Wind of change”: sopra le nuvole, c’è il cielo limpido

“Wind of change”: sopra le nuvole, c’è il cielo limpido

Passi svelti. Qualcuno corre sulle scale. Mi rigiro sul letto, a metà tra il sonno e la veglia. Che ore sono? Saranno le 8.00, o poco più. Ho preso le mie medicine poco fa. Passi svelti. Che succede? Ieri sera c’era tanto vento… È forse successa qualche cosa?

“Veronica! Veronica ci siamo!” voce allarmata, emozionata, scossa. Mio padre, fermo ai piedi del letto. Mi siedo, sgrano gli occhi. Non capisco subito. Poi sì.

Io: “Cosa?’’

Lui: “Sono arrivati!”

Io: “I polmoni? Hanno chiamato da Vienna?”

Lui: “Sì!”

Adrenalina. Tremolio. Emozione. Non so definirla. Non so spiegarla. So solo sentirla, percepirla. Come descrivere un’emozione nuova? Un’emozione mai vissuta prima, ma che rivivrò cento, mille, infinite volte, nei ricordi. Così forte da restare impregnata in me. Con la stessa intensità, ad ogni ricordo.

Io: “Oddio! Allora mi preparo. A che ora partiamo? Posso avvisare…?”

Lui: “L’aereo parte alle 11 da Falconara. C’è tempo!”

Mio padre esce dalla stanza. Frenesia. Bisogna preparare tutto il necessario. Le valigie sono già pronte da tempo. Prendo il cellulare, provo ad avvisare una persona che voglio assolutamente salutare. Non risponde. Riprovo. Nulla. Riprovo. Riprovo. Riprovo. Non smetto di provare. Intanto mi alzo dal letto. È arrivata mia madre a casa. Aveva appena lasciato a scuola mio fratello piccolo, Leonardo, ed è subito andata a riprenderlo. Sono tornati a casa. Ci siamo tutti ora. Mia madre mi dà un paio di pantaloni di tuta neri, una maglietta a maniche corte e una felpa. In bagno sono sola. Mi guardo allo specchio e finalmente rifletto. Sorrido. Sono felice? Sì. Sì, sono felice. Non me l’aspettavo, e non me lo sentivo. Ma so, so che non ci sarebbe stato molto tempo ancora. Ogni giorno, sarebbe stato buono. Si andava verso un’incerta salvezza, ma comunque una salvezza. L’unica. Sorrido, consapevole della paura che ho. Che devo avere. Finisco di prepararmi, devo fare il cambio del farmaco sulla pancia prima di partire, come mi hanno spiegato i medici. Lo faccio, e intanto penso, e spero, che sia l’ultima volta. Addio ago, addio pompetta, addio dolore ogni mese, addio odore nauseante. Addio. Continuo a provare, a chiamare quella persona. Nulla. Chiamo una delle mie migliori amiche. La sveglio. È contenta che gliel’abbia detto. Le dico che se vuole può passare a salutarmi prima che io me ne vada. Dice che sarebbe arrivata presto, insieme a Elisa. Mio fratello Leonardo entra in camera, e appoggia sulla mia scrivania un cagnolino di vetro. Un piccolo dalmata, con in bocca un gomitolo rosso. Grazioso.

Lui: “Tieni Vero! Un portafortuna!”.

Ha gli occhi azzurro-verdi che vorrebbero piangere. Ma so, che non lo farà. Come me. Le lacrime non riescono mai ad uscire, o escono al momento sbagliato. Vero Leo? Lo abbraccio forte, e gli bacio la testa. Entra mia madre, mi aiuta a finirmi di vestire. Come sempre. È quasi un anno oramai che deve aiutarmi a far tutto. Il respiro, mi abbandona ogni giorno un po’ di più. Ma forse è la fine. Forse. Lo spero. Lo voglio.

Mia mamma: “Vieni di sotto? Ci sono tutti! Vogliono salutarti!”

Io: “Sì, mamma. Arrivo. Lasciami sola qualche minuto”.

Ho tutto. Ma devo fare una cosa. Ci avevo pensato a lungo, senza mai trovare il coraggio. Spesso la morte, arriva inaspettata, senza preavviso, senza che ci sia il tempo, per riflettervi. Non mi piace pensare alla morte. Ma come non farlo, quando la realtà te la pone così vicina? Un’operazione per la salvezza. Ma è un passaggio in bilico su un filo sottile. I rischi sono altissimi, e io sto male. Lo so. Prendo il mio diario, e lì, senza dare nell’occhio, scrivo due righe al mio eterno confidente. E scrivo anche che cosa avrei voluto mi accadesse se non fossi più stata in grado di dirlo io. Spero di poterti scrivere di nuovo presto. Ciao diario mio. Concludo così.

Poi scendo le scale. Piano. Ci sono tutti. I miei zii, nonna, i cugini, i fratelli, i miei genitori. Tutti attorno al tavolo. Mi guardano, mentre scendo le scale ridendo. Rido per gioia? Imbarazzo? Isterismo? Emozione? Paura? Non lo so. Rido per tutto. Rido. Perché non riesco a piangere. Ma ci pensano gli altri per me. Mi scontro con gli occhi arrossati di chi mi vuole bene. La preoccupazione. La speranza. La gioia. Vedo piangere chi non avrei mai pensato. Suonano alla porta. Sono le mie amiche Elisa e Ylenia. Sono felice di vederle. Le abbraccio, tutte e due insieme, la mia forza, in così tante esperienze passate. Ed anche ora sono qui. Con gli occhi arrossati e l’amicizia accesa.

“Tieni una pietra portafortuna!” dice mio fratello Leo. Lo abbraccio di nuovo. “Speriamo che questi portafortuna facciano il loro dovere!” dico io.

Mi passano il telefono. È la dottoressa che mi segue, Gaia Mazzanti: “Veronica sei pronta? Sei tranquilla? Che effetto ti ha fatto la chiamata?”

Io: “Sì. Sì. Sono abbastanza tranquilla. Gli altri sono più agitati di me”.

Gaia: “Tuo padre mi sembrava parecchio agitato”.

Io: “Sì, e mia madre anche di più”.

Mi spiega le ultime cose. La saluto. È ora di andare. Abbraccio tutti. Uno per volta. Il momento più difficile. Per ultimi i fratelli. Leonardo, di dieci anni e Alessandro, di sedici. Li stringo e li bacio. Ci vedremo presto. Scendo le scale per andare in garage. Continuando a ridere. Lasciandomi nel cuore le lacrime di speranza, gioia, paura, emozione. Quelle degli altri. Di chi mi vuole bene. Quelle per me. In macchina riprovo a telefonare a quella persona che voglio salutare. Non risponde. Sospiro. Il cellulare squilla. È lui! Ha già capito. Dormiva. Dice che mi avrebbe raggiunto all’aeroporto, assieme a un altro mio amico. Sono felice. Posso salutare tutti, tutti davvero. Chiamiamo il Prof. Galiè in macchina. Mi chiede se sono pronta, mi augura buona fortuna. Sì, sono pronta. E tutto questo accade grazie a lui. Arriviamo all’aeroporto. Scendo dalla macchina e salgo sulla sedia a rotelle. Già, oramai sono mesi, che non cammino più, se non per brevi tragitti… Andiamo dalla polizia dell’aeroporto. Spieghiamo la situazione. Dobbiamo partire. Un trapianto. Ci fanno passare avanti a tutta la coda. Mi controllano piuttosto velocemente, entriamo. La gente mi guarda, impietosita, stupita forse. Non ci faccio caso. Ormai, ne sono abituata. Arrivano i miei due amici. Uno può entrare, l’altro deve restare fuori. Sono contenta di averli con me. Sono contenta di poter salutare quella persona. Aspettiamo insieme l’aereo. Parlando di tutto. Parlando del dopo. Dicendo che speriamo. Raccontando della chiamata, di tutto. In bilico tra la mia frenesia, la paura, la speranza, la gioia. Mi arrivano molti messaggi. Mi augurano buona fortuna e mi dicono che sono felici per me… Non so cosa pensare io. Penso a tutto e a niente insieme. Vedo mia madre avvicinarsi.

“È arrivato l’aereo?” mi dice.

Io: “Sì! Andiamo!”

Quella persona mi accompagna fino davanti all’aereo. Un aereo piccolo, mandato direttamente dall’ospedale di Vienna. Due piloti, un infermiere, io, mia madre e mio padre. Saluto il mio amico, un abbraccio. Tornerò presto. Te lo prometto. Lo prometto. L’aereo parte. Non riesco a fare nulla. Né leggere, né ascoltare musica. Solo pensare. E scambiare qualche parola con i miei. Non voglio isolarmi. Voglio stare con loro. Sentire il nostro frenetico silenzio riempire il vuoto di quell’aereo confortevole. “Se vedi una luce, o qualche altra cosa. Tu non ci andare. Resta qui!” dice mia madre ridendo. Anch’io rido. Guardo fuori. Le isole. Il mare.

“Guardate quanto è azzurro il mare in quelle zone! Pensate quanto sarà bella l’acqua lì!”

C’erano le nuvole quel giorno, ma ora noi eravamo sopra e si vedeva il cielo azzurro. Mi viene in mente questa frase. Sopra le nuvole, c’è il cielo limpido. Si spiega da sé.

“Andrà tutto bene. C’è nonno lassù, che ci aiuta” dice mia madre. Le sorrido. Nessuno di noi tre parla troppo. Qualche battuta, per distrarci. Poche parole. Guardiamo fuori. Mi vagano per la testa le note della canzone Farewell di Guccini. La ascoltavo di continuo nei giorni precedenti. Arriviamo, ore 12.28. Dall’aereo, immediatamente nell’ambulanza. Sfreccia veloce, accendendo le sirene di tanto in tanto, per evitare il traffico. Mio padre ci raggiunge in taxi all’ospedale. Arriviamo. Mi mettono su di una sedia a rotelle e mi spingono attraverso i corridoi dell’ospedale verso il ventesimo piano. Il reparto 20C. Mi fanno distendere su di un letto, in una stanza. Mi copro. Ho freddo.

Intanto che aspetto avviso ancora qualche amico, leggo i messaggi. Penso. Entra un dottore. L’assistente del chirurgo. Deve farmi un prelievo del sangue. 23 provette. Ci spiega che è necessario durante l’intervento. Finito il prelievo mi sento stanca, già un po’ stordita. Ho freddo. Mi portano a fare un ecocardiogramma. I miei genitori scendono con me, vicino al letto. La dottoressa è italiana. Guarda il cuore, è grande. Troppo. Sta male. Lei non dice nulla. Risaliamo al 20C.

Mi fanno spogliare, mi danno un camice. Tolgo tutti i miei braccialetti, che da anni stanno attorno al mio polso. Molti devo tagliarli. Li conservo. Un’infermiera dice “operazion operazion!” in una specie di italiano stentato. È gentile. Mi infila le trecce all’interno di una cuffietta verde. Poi andiamo. Scendiamo al IX piano. Un infermiere mi spinge. I miei genitori mi seguono. Il corridoio è lungo, largo, vuoto. Arriviamo davanti alle porte arancioni, oltre le quali posso andare solo io. Mi siedo sul letto e abbraccio forte entrambi. Con gli occhi pieni di lacrime mi dicono che mi vogliono bene. E sento così forte il legame che ci unisce. Li abbraccio. Vorrei salutarli molto più a lungo. Ma non c’è tempo. Continuo a guardarli, fino a che non si richiudono le porte. Mi lasciano vicino a un muro, nel letto. Mi guardo intorno. Apparentemente tranquilla. Mi si avvicina un ragazzo giovane. Mi parla in tedesco. Non capisco. Gli chiedo di parlare inglese. Mi spiega che è uno studente americano che vorrebbe assistere alla mia operazione. Firmo l’autorizzazione. Arriva un’infermiera, dal volto simpatico. Mi chiede se abbia mangiato o bevuto. Le dico che ho soltanto bevuto un po’ d’acqua quella mattina per le mie terapie. Mi fanno salire sulla barella e mi trasferiscono nella sala operatoria. Ho freddo. Tremo. Mi scaldano con un tubo che soffia aria calda in un cuscino gonfiabile di plastica, che mi appoggiano sulle gambe. Quel calore è confortante. Mi inseriscono la flebo. E poi arriva una siringa. Chiedo se sia l’anestesia. Mi assicurano di no. L’infermiera deve inserire un ago sul mio polso. Mi dice che sarà un po’ doloroso. Un’altra infermiera, giovane, dagli occhi celesti e dal viso confortante, mi dice che se ho male posso stringerle la mano. Rido e le dico grazie. Vedo avvicinarsi un dottore, con numerose siringhe, di colore verde. Grandi.

“Questa è l’anestesia?”

“Sì!”

So che non avrò tempo di pensare nulla. L’ho già fatta altre due volte quell’anestesia. Mi ricordo. Spero che vada bene. Spero che vada bene. Non riesco a pensare altro. La vista si annebbia. BUIO.

………..

“Veronica? Veronica? È andato tutto bene, mi senti?”

Voci confuse, delicate, amiche. Voci annebbiate. Volti scuriti dalle palpebre cadenti dei miei occhi, rotolanti qua e là. Nebbia. Confusione. Comprendo poco. Non so il giorno, l’ora. Nulla. BUIO.

Occhi aperti. Un tubo nella gola. Non posso parlare. Ho tanta voglia di farlo. Sono agitata. Euforica. Buffa. Chiamo tutti. Gli infermieri, i medici, i miei genitori. Faccio strani gesti. Voglio dire tante cose. Voglio dire che ci sono. Sono qui. Raccontare ciò che ho vissuto, con il cervello spento. Raccontare ciò che non posso ricordare. Ma voglio dirlo. Ci sono. Ce l’ho fatta. Sono qui. Sono qui. E saluto tutti. Li chiamo. Tento di parlare. Li saluto. Euforicamente viva. Confusione. Buio. Confusione. Occhi aperti. Di nuovo. I volti dei miei genitori. Parlano. Cercano di indovinare che cosa voglio dire. Gesticolo. Faccio strani gesti.

“Vuoi sapere come è andata? È andato tutto bene? Cosa hanno fatto oggi? Ti hanno tolto la circolazione extracorporea. Cosa hai lì? I drenaggi! Il donatore? Non lo sappiamo! Questo vuoi sapere?” Annuisco. Sì. Sì. Voglio sapere tutto. Non avete indovinato forse, ciò che confusamente penso. Ma io annuisco. Sì. Voglio sapere tutto. Voglio dire che ci sono. Che non ho più il farmaco sulla pancia. Voglio sapere chi è il donatore. Che giorno è. Tutto. Un infermiere, Martin, mi dà una lavagnetta di plastica, per scrivere ciò che voglio dire. Ci provo. Ma sono troppo confusa. Non vedo nulla. La mano si muove, penso di aver scritto ciò che voglio dire, ma la mente è in un mondo a sé. Guardo la lavagnetta: soltanto segni confusi. Ci rinuncio. Felicemente agitata. È quasi sera. 24, o 25 settembre. Sono sveglia. Euforica. Viva. Non ho l’ipertensione. Non più. Ma io, non lo capisco. Non ancora…

Mi addormento con facilità. Quasi di continuo. Non sento nulla. Alcun bisogno. Solo il fastidio di quel tubo sulla gola. Ma i sensi, sono ancora tanto spenti. Tutto è rilassato. Freneticamente rilassato.

E gli occhi si chiudono. Le voci si confondono. Come i ricordi. Arriva un signore alto, un po’ scuro, con i capelli bianchi.

“È il chirurgo che ti ha operato” mi dice mia madre. Sono felice. Ho voglia di parlargli. Non so cosa voglio dire. Posso solo muovermi. Lo saluto di continuo, muovendo energicamente il braccio. Euforica. Come ubriaca. Buffa. Arriva un dottore, dice qualcosa in italiano. Voglio dirgli che sono italiana. Non so perché, ma voglio dirglielo. Lo indico. Mi indico. Non capisce. Mi porta la lavagnetta. Provo a scrivervi “ITALIA” guardo il risultato: uno scarabocchio. Alzo le spalle. Non importa. È sera. Confusa. Strana. Guarita. Mi passano il telefono. Parla una voce amica. Vorrei dire tante cose. Ma ho il tubo nella gola… E posso solo ascoltare. Sorrido. Mamma mi tiene una mano, papà l’altra. Cantano. Cantano le mie canzoni preferite. Alcune le sento, altre no. Baglioni, Gino Paoli, e altre… Le mettono anche dal mio cellulare.

“Questa?”, scuoto la testa. Papà legge tutti i titoli. Ed è sempre un no. Poi finalmente annuisco. Un chimico di De Andrè. Da quella partono tutte le canzoni che preferisco. Lo sapevo. Mi addormento. Mi sveglio. Mi riaddormento. È tardi. I miei mi salutano e se ne vanno. Rimango nella stanza buia, sola. L’infermiere viene spesso in camera e mi bagna la bocca con un tampone rosa di gomma piuma, impregnato d’acqua. Il tubo me la secca. E quel poco di acqua al leggero retrogusto di menta, mi dà sollievo. La notte passa veloce. Mi sveglio spesso. Ho le mani legate al letto, per evitare che strappi via il tubo. Ogni volta che mi sveglio sbatto la mano sulla ringhiera del letto. Il campanello per chiamare l’infermiere è lontano e io ogni volta sento il bisogno che mi bagni la bocca. Mi addormento. Mi sveglio. Mi riaddormento… Sempre così. E ogni volta quelle immagini così strane. Volti, labbra rosse, bambini piccoli, extraterrestri, strani esseri… Tutto. Strano. Forte. Fastidioso un po’… Continuano per giorni. Basta chiudere gli occhi. Ed ecco le allucinazioni… Una luce illumina la stanza: è mattina. Entra una ragazza piuttosto robusta, mora, dal viso grazioso e piena di tatuaggi: l’infermiera del giorno. Si avvicina al letto, le sorrido e cerco di farle capire che desidero che mi bagni la bocca. Non posso parlare, pertanto faccio molta fatica a dire ciò che voglio, ma alla fine ci riesco. È gentile e paziente. Chiama un’altra infermiera e insieme mi lavano. Mi piace sentire i panni tiepidi di acqua scorrermi nella pelle. Mi piace la compagnia. Non percepisco chiare le mie emozioni, ma sento un soffuso senso di ansia e paura, nel rimanere sola. Continuo ad addormentarmi spesso. Mi chiedono come sto, se va tutto bene. Continuo a indicare il tubo e dire che non lo voglio. L’infermiera mi dice che se il cuore inizia a lavorare bene me lo avrebbero tolto quella mattina. Continuo a voler parlare, mi passano di nuovo la lavagnetta: questa volta, seppur senza occhiali, ci vedo più chiaro e riesco a scrivere. Sono contenta di riuscire finalmente a comunicare. E voglio farlo. Faccio molte domande, anche non necessarie forse. Sicuramente di più di quante ne avrei fatte in condizioni normali. Entra un dottore, e mi chiede come sto. Indico il tubo e mi dice che lo avrebbero tolto. Ormai, è spento. Respiro da me, con il solo aiuto di una mascherina ad ossigeno. Mi spostano il tubo, per controllarlo. Ora, è in una posizione molto fastidiosa. Mi sento come se non riuscissi a respirare. Ansia? Ho sempre paura di non respirare. Ho la continua sensazione di non riuscire a farlo. Scrivo nella lavagnetta che il tubo mi impedisce di respirare bene. Si preparano a togliermelo. Chiudo gli occhi. È strana la sensazione della plastica, sfilata dalla gola. È strana, indescrivibile. Un fastidio, soltanto percepibile. Rimane per un po’, la sensazione del tubo che striscia la pelle, la sensazione della presenza. Rimane. Provo a parlare. Non ci riesco. Mi dicono che è normale. Ho bisogno di tossire. Esce un po’ di sangue. È normale. Sono collegata a una macchina che suona se è troppo tempo che non respiro: la sento suonare di continuo. È incredibile il modo in cui non mi accorgo di non respirare. Devo concentrarmi, inspirare, espirare… di continuo. Come era normale, come è normale. “Respira!” continua a ricordarmi l’infermiera. “E se mi addormento?” scrivo sulla lavagnetta. L’infermiera mi rassicura dicendomi che ero tenuta continuamente sotto controllo. Chiedo dove siano i miei genitori. L’infermiera mi dice che hanno già chiamato e che alle 13.00 sarebbero venuti e rimasti fino a sera. Poi, mi chiede se voglio bere dell’acqua. Annuisco. Ha un sapore strano. Bevendo, sento forte l’odore della plastica: non mi piace. Inizio ad avere un po’ più distinta la concezione del tempo, delle ore, della realtà. E col passare dei giorni, mi riavvicino sempre di più a quello che è il normale scorrere della vita: sono passati solo pochi giorni, ma io lo percepisco come uno stacco, un punto e poi a capo, una frattura incolmabile, tra il prima e l’ora.

Quel giorno viene una fisioterapista. Ne sono felice, sento che mi sto avvicinando alla strada del recupero, alla vita. Mi dice delle tecniche per tossire. Mi piace, perché sento forte il bisogno di farlo. Quella sera mi fanno bere un po’ di zuppa e mangiare uno yogurt. Riprendo le funzioni vitali. Riprendo ad essere autonoma. Ritorno ad essere io. Durante il pomeriggio l’infermiera mi fa indossare una maschera, per allenare il cuore. Una maschera che mi respira contro, e mi sembra quasi che mi soffochi. Mi fa paura, mi dà fastidio. Ansia. Voglio toglierla. Non riesco a tenerla. Cerco di strapparla. Presto me la leva. La sera mi sento bene. Sono felice. Sto recuperando. I miei genitori sono accanto a me, riesco anche a sussurrare qualche parola. Ascoltiamo insieme un po’ di musica. Mi rimettono di nuovo la mascherina che mi respira contro, per allenare il cuore. Questa volta sono più rilassata. Tanto che mi addormento e i miei se ne vanno.

Il giorno dopo mi sveglio strana. C’è una malinconia diffusa. L’infermiere è cambiato, e mi aspettavo ci fosse la stessa del giorno prima: la cosa mi disorienta. Penso ai giorni a venire, mi sembra impossibile riuscire ad affrontare tutto. Non riesco ad esprimere che cosa ho. Il fisioterapista mi fa sedere sul letto, io vorrei già alzarmi. Mi fa male tutto però. La schiena, il petto. E sento forte il bisogno di tossire. Ma non ci riesco. E ho paura. Ho paura di non respirare. Di non riprendermi. Di non farcela. Mi sento stanca e ho paura di non fare abbastanza. Continuo a chiamare di continuo gli infermieri: ho caldo, ho freddo, non riesco a tossire, ho caldo, ho caldo, ho… Ho qualcosa che non va via, qualcosa che non so cosa sia… Arrivano i miei genitori e mi chiedono che cosa c’è che non va. Non lo so. Non mi va di fare nulla. Non mi va di parlare. Mi sento cadere, cadere giù nel vuoto. E non c’è nulla che riesca a fermare quella mia caduta libera. Mi addormento. Quando mi risveglio sto un po’ meglio.

I giorni passano e io mi avvicino sempre di più alla vita. In poco tempo mi fanno alzare in piedi, ricomincio a mangiare da sola, ricomincio a respirare, come non avevo mai respirato prima… E a volte, nonostante tutto, la sento ancora. Sento ancora il respiro, come se mancasse. Ma è solo paura. È solo abitudine. Ed ogni traguardo è gioia. Il giorno prima di dimettermi dalla terapia intensiva, il fisioterapista mi fa camminare a lungo per i corridoi.

“Ora cammina più veloce che puoi” mi dice. Lo faccio. Le gambe mi fanno male ovunque, la schiena anche, e anche il petto. Eppure riesco a camminare a passo svelto. Non annaspo, non mi sento svenire: il respiro non manca. Nemmeno una settimana è passata e il respiro non manca più. Non mi sembra vero.

Dopo cinque giorni di terapia intensiva mi trasferiscono in reparto, al 20C. Vi resto per due settimane. I giorni si susseguono quasi veloci. Pieni di benessere. Pieni della mia corsa verso la vita. Ogni giorno cammino molto, per i corridoi dell’ospedale, con la mascherina protettiva sulla bocca, perché a causa dei farmaci ora ho le difese immunitarie molto basse. Cammino con i miei accanto e a volte anche da sola. La fisioterapista viene tutti giorni e mi assegna degli esercizi, per la respirazione e per i muscoli, che ripeto tre volte al giorno. Mi muovo spesso. Di continuo. Cerco di fare il più possibile. Cerco di riprendermi al meglio. Lo voglio. Ogni giorno mi sento meglio. Eppure a volte, sento una sorta di vaga tristezza, di ansia. Mi chiedo come sarà ora la mia vita. Come sarà, stare bene? Come sarà, essere normale? Non sono abituata. E i cambiamenti, mi hanno sempre agitata. E poi avrei voglia di uscire, di vedere i miei amici, di passeggiare per la strada di una città, riuscendo a respirare, come non accadeva più da tempo. Ma la strada è ancora tanta. E io, devo solo aspettare.

Dopo due settimane, mi trasferiscono a Bologna. Il viaggio in ambulanza è lungo, ma mi piace. Mi piace vedere le strade, mi piace fermarmi per breve soste negli autogrill. Mi piace riavvicinarmi a quella che sembra una vita normale. A Bologna le regole d’igiene sono più severe rispetto a Vienna. Nella mia stanza ci sono soltanto io e chi entra deve indossare il camice, i calzari e la cuffietta verde, le stesse cose che devo indossare io quando esco per i corridoi. È sabato quando arrivo. E il sabato in ospedale è sempre più triste degli altri giorni.

Parlo con i miei amici che escono e avrei voglia di essere con loro. L’entusiasmo del viaggio svanisce. Non mi va di rimanere in ospedale. Mi sento bene. E ho voglia di sentirmi anche meglio. I giorni a Bologna passano più veloci del previsto. Vi rimango poco: due settimane. Nel reparto in cui tante volte sono stata ricoverata, per l’ipertensione. Nel reparto che è ormai come una famiglia. Gli infermieri mi conoscono, sono gentili e sinceramente felici per me. Ogni giorno cammino ed eseguo gli esercizi che mi dà il fisioterapista. Sono più faticosi di quelli di Vienna e la cosa mi piace, perché significa che sto davvero guarendo. Le due settimane passano in fretta e arriva, finalmente il momento di tornare a casa. Il Prof. Galiè vuole parlarmi prima che io me ne vada. Entra, insieme alla Dott.ssa Mazzanti.

“Quello che hai vissuto tu, ora, puoi capirlo soltanto tu. Gli altri tuoi coetanei, per quanto potranno essere comprensivi, non percepiranno mai davvero la tua situazione, ciò che hai vissuto, ciò che hai provato. Un trapianto è una cosa difficile e una volta superata l’operazione, bisogna mantenersi in buona condizione di salute. Non si è mai guariti davvero. I rischi delle cure antirigetto sono alti. Devi stare attenta, soprattutto i primi tempi a non ammalarti, poi col tempo, la tua vita diverrà sempre più normale. Ma ora devi stare attenta, forse non noterai grandi cambiamenti rispetto a prima. Potrai vedere poche persone, frequentare pochi luoghi, non andare in posti chiusi… Ma è importante per la buona riuscita di ciò che hai passato”.

Più o meno mi dice ciò. In macchina, nel viaggio verso casa, guardo fuori dal finestrino e sento una certa malinconia. La voglia di vivere non l’ho mai persa, neanche quando stavo molto male e ora, ne ho più che mai. Ho voglia di uscire, di stare con gli amici, di passeggiare, e di riprendere a studiare. Avrei voglia di fare di più, rispetto a ciò che mi ha detto il professore. Eppure ora sono guarita… Perché non me ne rendo conto? Non serve molto tempo perché accada. Arrivo a casa, entro in garage e invece di dirigermi verso l’ascensore, salgo le scale. E non a passo lento, non devo fermarmi ad ogni gradino. Salgo le scale come tutti, come una persona normale. In cima c’è mia nonna che mi aspetta.

“Visto? Ho fatto le scale? E senza affanno?” dico. E nella voce vibra la felicità. Guardo fuori dalla porta a vetro, il giardino. Alle colonne del portico è appeso un cartellone giallo, in cui splendono quelle lettere colorate.

“Pronta a girare il mondo?”. Esco ridendo. I miei quattro migliori amici mi vengono incontro. Avrei voglia di correre loro incontro e di stringerli, di ringraziarli, ma non posso. Per i primi tempi non posso avere contatti ravvicinati con le persone. Bisogna stare attenti. Ma loro sono qui, io sono tornata, e sono tornata col respiro. Rimangono un paio d’ore. È strano rivederli dopo tanto, ma soprattutto dopo aver vissuto tutto ciò. Mi chiedono molte cose: dell’operazione, dell’anestesia, della cicatrice… Finalmente mi sento a casa, finalmente mi sento guarita. Finalmente sono me stessa. E i giorni passano, e sento nell’aria quel soffuso senso di benessere, di bene, di bello, di casa. E mi accorgo di essere guarita, ogni volta che salgo le scale, ogni volta che cammino per le strade di campagna che circondano la mia casa, che mi sono sempre piaciute, ogni volta che faccio gli esercizi per il respiro e per i muscoli, ogni volta che cammino, e nessuno deve aspettarmi. Sì, in tutto ciò, mi accorgo di stare bene. A volte mi sembra impossibile, di poter riuscire a sollevare qualcosa, a camminare lungo una salita, e invece ci riesco. Ma non mi dimentico. Non mi dimentico cosa significava alzarsi da una sedia e non respirare, non dimentico il male del farmaco sulla pancia, non dimentico l’ossigeno sul naso, non dimentico di quando dovevo dormire con il letto sollevato, o il cuore batteva troppo forte. Non dimentico nulla e non posso che ringraziare tutto ciò per avermi fatto capire tanti aspetti della vita, che altrimenti non avrei potuto comprendere, per avermi fatto conoscere persone “Più uniche che rare” citando il caro gruppo di Whatsapp, e per avermi fatto percepire il bene che mi vogliono le persone che ho vicine, primi i miei genitori, che in tutto questo percorso, sono stati fondamentali. Sempre vicini. Sempre con me. A sopportare la mia paura, i miei sfoghi, la mia ansia, la mia malattia. Tutto, con il peso della loro, di paura.

Vienna, 21 novembre 2014

Primo controllo. Siamo partiti un giorno prima, per girare un po’ per le vie della bella Vienna. Cammino nel freddo pungente del novembre viennese, guardando le vetrine dei negozi, guardando la gente, la vita. Penso che le persone che mi vedono, neanche immaginano che, appena due mesi prima, ero in una sala operatoria, per un trapianto di polmoni. Un ragazzo suona la chitarra, ai bordi della via: Wind of Change degli Scorpions. Vento di cambiamento. Le note di quella canzone mi entrano nelle orecchie, raggiungono gli occhi, il naso, le labbra, le mani, il cuore. Mi ricordo di un lontano 23 giugno 2014, in macchina con mia madre, alla radio parte quella canzone e per i giorni successivi non faccio che ascoltarla. Mi ricordo di quel giorno, perché in quel giorno entrai in lista per il trapianto. E quella canzone mi sembrava perfetta. Una di quelle coincidenze del caso, che a volte capitano e sembra quasi di essere in un film… Mi guardo intorno, lontana dall’ansia della chiamata, lontana dall’ossigeno, lontana dal dolore del farmaco sulla pancia, lontana dalla sofferenza fisica… Vento di cambiamento. Sì, è tutto diverso. È tutto migliore. È tutto pieno di ossigeno, vita, Amore.

Auguro buona salute a tutti e spero davvero che questa mia storia possa servire a dare speranza a coloro che ancora devono convivere con questa terribile malattia.

E per finire voglio dire una cosa. Non credo ci si guarisca mai per sempre, la vita è sempre piena di ansie, paure, preoccupazioni, che rimangono, al di là della salute. L’importante però, è non fare vincere ciò che è male, essere più forti della malattia di vivere, solo così si può stare bene. L’ultimo anno prima del trapianto sono stata davvero molto male, e ciò che mi ha aiutata è stato adattarmi alla condizione che la mia vita in quel momento mi dava. Cercare di non prendermela, con nessuno. Sfogare l’energia che dentro mi esplodeva, in ciò che potevo, e mi sono divertita anche in quei tempi! Ho letto molti libri, ho cominciato a prendere lezioni di piano, ho passato molto tempo a giocare con mio fratello piccolo… E tutto questo mi aiutava ad essere ammalata solo nel corpo e non nello spirito.

Buona salute e forza!

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