Un grande cuore finalmente è tornato a vivere!

Un grande cuore finalmente è tornato a vivere!

Ieri (14 ottobre 2015, ndr) sono stata a Bologna per una visita di controllo a seguito dell’intervento di tromboendoarterectomia eseguitomi il 23 settembre 2015.

Sono rimasta entusiasta nel vedere sia il personale infermieristico del S. Orsola-Malpighi sia i medici riconoscermi mentre passavano per il corridoio, chiedendomi come stessi. Ho incontrato anche la splendida Marzia, la quale mi ha salutato e chiesto di raccontare non solo l’intervento, ma anche il post intervento, considerando che è stato particolare e delicato.

Ebbene cari amici, posso solo dire che nonostante i soli 22 giorni passati dalla data dell’intervento, la mia vita è cambiata molto.

Siamo partiti per la Germania il 19 settembre, poiché il Prof. Galié ha insistito affinché fossi nelle mani del chirurgo Mayer, dirigente del dipartimento di chirurgia toracica presso la clinica Kerckhoff, in Bad Nauheim, una piccola cittadina a 40 km da Francoforte.

Il lunedì successivo, 21 settembre, sono stata ricoverata e da subito abbiamo trovato personale molto gentile e disponibile, col quale parlavamo tranquillamente in inglese. Le infermiere mi hanno spiegato per filo e per segno cosa avrei dovuto fare i due giorni antecedenti l’operazione. Dopo aver eseguito tutti gli esami del caso, il Prof. Mayer è venuto nella mia stanza per spiegarmi in cosa consistesse l’intervento e tutto quello che avrebbe comportato.

Ammetto che la paura era molta: il Prof. Mayer spiegava anche quanto fosse più rischioso il mio caso rispetto ad altri, poiché ero in brutte condizioni da parecchio tempo. Nonostante questo, era molto fiducioso e io altrettanto rincuorata e convinta di essere stata affidata nelle mani giuste.

La mattina dell’operazione mi hanno svegliata molto presto, alle 5, per farmi prendere un calmante e indossare l’occorrente per la sala operatoria. Alle 6,30 i miei genitori e il mio fidanzato erano già lì per darmi la forza e il coraggio di cui avevo estremamente bisogno.

Mia madre mi ha seguita fino all’ascensore e l’ho salutata con una strana sensazione, perché in quel momento non avrei voluto lasciarla. Allo stesso tempo però sapevo che per la prima volta nella mia vita stavo seguendo la strada giusta, quella che mi aveva indicato il Prof. Galiè.

Sono entrata nella sala operatoria e mi sono guardata intorno come una bambina incuriosita che entra in un negozio di caramelle. Gli infermieri erano giovani e molto gentili con me; mi hanno spiegato nel dettaglio cosa avrebbero fatto sul mio corpo. In primis, l’ago per l’anestesia e subito dopo uno strano strumento in fronte per verificare quanto profondamente stessi dormendo. È arrivata anche l’anestesista con una buffa bandana in testa, simpatica, che mi faceva sorridere. Mi ha tranquillizzato e mi ha detto che avrei sentito bruciare un pochino e subito dopo mi sarei addormentata. Così è stato. Da quel momento, infatti, buio totale.

Ricordo vagamente di essermi svegliata quella notte per una frazione di secondo in terapia intensiva, piangendo. Immediatamente è arrivata un’infermiera, di cui ricordo un’immagine sfocata, la quale ha azionato qualcosa nel macchinario attaccato a me e da lì di nuovo il vuoto.

Mi hanno svegliato la mattina successiva pronunciando ad alta voce il mio cognome. Riuscivo a malapena ad aprire gli occhi. Ero confusa, mi addormentavo e mi svegliavo in continuazione: sentivo le voci delle persone intorno a me, ma non capivo dove mi trovavo. Mi hanno chiesto se volevo lavarmi i denti e, con la mia voce che riconoscevo a stento, ho risposto di si. Molto carinamente si sono occupati loro di tutto. Mi hanno lavato e cambiato camice e calze anti-trombo. Mi hanno chiesto se riuscivo a prendere la terapia: non so come, ma ce l’ho fatta.

Avevo una sete allucinante, però non potevo bere tanto, perché l’acqua avrebbe potuto finire nei polmoni. Troppo rischioso. Piccoli sorsi e a distanza di tempo, mi dicevano.

Tra sonnolenza e stordimento è arrivato finalmente l’orario di visita e sono entrati i miei genitori. Come si sono avvicinati, sono scoppiata a piangere; hanno chiesto allora se avvertivo dolore e io ho risposto di no. Le mie erano lacrime di gioia, ancora incredula ero felice che tutto fosse andato bene.

La mattina dopo, un cardiologo molto gentile anche lui, mi ha fatto alzare dal letto e mi ha pesato per verificare se avessi accumulato liquidi. Quasi euforico, mi ha fatto capire che tutto andava bene, che il mio peso era calato, com’era giusto che fosse e che dovevo fare degli esercizi respiratori per i polmoni. Ci ho provato, ma non riuscivo. Mi si chiudevano gli occhi e ho chiesto di essere rimessa a letto. Arrivata anche la fine di quella mattina e viste le buone condizioni, decisero che potevo essere trasferita nel reparto di cardiologia. Ero contenta, così avrei potuto passare più tempo con i miei parenti.

Sabato 26 le infermiere hanno detto che dovevo camminare, o per lo meno dovevo provarci. Sono scesa dal letto e ho cominciato a muovere piccoli passi, fra tubi vari collegati a me, con l’aiuto del carrellino. Decisi di uscire dalla stanza e fare qualche passo in corridoio. Un’infermiera, che sicuramente rimarrà nel mio cuore per la gentilezza nei miei confronti, mi ha guardato dritta negli occhi e mi ha detto “Sai, la cosa che mi piace di più è il sorriso che hai in questo momento!”. Da lì ho realizzato quanto fossi stata fortunata. Ero felice.

Riuscivo a stento a tenere la testa dritta, tendevo ad abbassarla perché la sentivo pesante, anche gli occhi mi pesavano. Ho alzato lo sguardo verso i miei cari, che hanno ricambiato il mio sorriso. Sono ritornata in stanza e purtroppo sentivo il mio corpo cedere, era tutto normale, dato che l’emoglobina era sotto la norma.

Non riuscivo né a bere né a mangiare, difatti ero disidratata; da questo derivava un mal di testa allucinante.

Da quel momento nei giorni successivi cercavo di fare un passo in più alla volta, soprattutto dopo che gli infermieri mi avevano liberata dai tubi del drenaggio: non mi sembrava vero potermi muovere senza supporto.

Dopo aver ripreso a bere e mangiare quasi normalmente, sentivo che ogni giorno stavo meglio del precedente e, con l’aiuto di mia mamma, potevo anche lavarmi e uscire dalla clinica, al di fuori della quale vi è un parco immenso e stupendo.

Il 3 di ottobre mi hanno dimesso, ma per precauzione ho dovuto trattenermi qualche giorno ancora lì, a Bad Nauheim, per essere comoda e poter ripetere i frequenti controlli. Solo dopo, mi avrebbero detto il da farsi.

Sono ritornata per l’ecografia speranzosa di sentire un: “Sì, puoi tornare a casa!”. Così per fortuna è stato, poiché il mio cuore stava finalmente meglio. Non vi era alcun versamento e nemmeno impedimenti a tornare in Italia, finalmente.

Essere di nuovo a casa non è stata l’emozione più bella di quei giorni, ma poter camminare senza dovermi fermare o salire le scale senza pause intermedie, quella è stata la rivelazione più grande! Altrettanto emozionante è stato vedere i medici di Bologna, senza i quali io non sarei arrivata dove sono oggi. Erano tutti entusiasti di come fosse andata l’operazione e di come fossi felice.

Il Prof. Galiè, che durante tutto il ricovero in Germania è stato presente (e si è mantenuto poi costantemente in contatto con il Prof. Mayer), mi ha stretto la mano e chiesto se fossi pronta a ricominciare a vivere. Beh, la risposta è ovvia, ma posso assicurarvi che altrettanto ovvio non è oggigiorno aver la fortuna di trovare persone come lui. Persone, sottolineo, oltre che medici, che tengono ai loro pazienti, che li seguono passo dopo passo fino alla guarigione. Non saprò mai come ringraziarlo a sufficienza per avermi aiutata e ridato la speranza di poter condurre una vita normale. È stato un percorso lungo e difficile fino a qui, ma fortunatamente sono arrivata a una conclusione e ora non mi resta che godermi la vita!

Con la mia storia, una goccia nell’oceano forse, vista sfortunatamente la quantità di malati che ci sono, spero di aiutare qualcuno a ritrovare non solo la speranza e la forza di non mollare mai, ma anche di aiutare a credere in se stessi, perché solo noi possiamo conoscere la sofferenza che ci portiamo dentro, noi soli. E a chi, come me, dovesse affrontare la mia stessa strada, auguro tanta fortuna. Un abbraccio, da un grande cuore che finalmente è tornato a vivere!

di Elisa Taliento

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